La definizione inglese della comunicazione non-violenta è “Compassionate Communication”  (I. Kashtan).
Compassione intesa come com-passione, ovvero “sentire insieme”. E questo implica un impegno simultaneo di genitori e bambini: il genitore cerca di comprendere lo stato emotivo del figlio, il figlio percepisce quello del genitore.

Il bambino che manifesta il proprio disagio attraverso ciò che comunemente viene definito “capriccio” desidera essere compreso ed accettato.
Il genitore che evita i giudizi di valore (“Sei sempre il solito”, “Non sei mai contento”) ma si dispone in un atteggiamento di comprensione empatica (“Sei arrabbiato perché saresti voluto rimanere ancora al parco?”, “Preferiresti giocare invece di dover uscire?”) aiuta il bambino a comprendere ed accettare i propri stati d’animo e lo fa sentire alla pari in uno scambio con l’adulto.
Allo stesso modo, il genitore che esprime le proprie sensazioni senza imporre rapide soluzioni (“Mi piace poter essere puntuale al lavoro”, “Mi sento meglio quando vedo la casa ordinata”) crea un legame emotivo con il bambino e non nasconde i propri desideri dietro imposizioni.

Marshall Rosenberg, direttore educativo e fondatore del “Center for Nonviolent Communication”, pone ai genitori una domanda fondamentale: indipendentemente dal comportamento che essi desiderano dal proprio bambino, quali motivazioni vogliono porre alla base di quel comportamento?

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