Gli effetti sarebbero una minore velocità di risoluzione dei problemi complessi, minore lucidità e maggiori difficoltà a registrare nuovi ricordi.
Agli orari lavorativi squilibrati, inoltre, sarebbero riconducibili anche altri effetti collaterali, come la possibilità di incorrere precocemente in demenza senile o disturbi e anomalie del sonno.
Dieci anni di lavoro a turni, quindi, basterebbero a generare un invecchiamento accelerato capace di provocare un notevole gap con le capacità mentali di lavoratori coetanei meno stressati.
Le conseguenze potrebbero riversarsi sulla stessa capacità produttiva del lavoratore, meno efficiente e attento sul posto di lavoro e quindi più esposto al pericolo di errori o incidenti.

Come spiegano i ricercatori, tuttavia, esiste una buona notizia: questo processo non è irreversibile, e sarebbe sufficiente un ritorno a ritmi regolari e sostenibili per almeno cinque anni, per tornare in linea con i livelli di prontezza cerebrale normali per la propria età.
La soluzione al problema potrebbe essere, per quanto possibile, quella di ridurre allo stretto indispensabile l’organizzazione del lavoro in turni. Come dichiarato dal Dott. Philip Tucker – uno dei coordinatori del progetto di ricerca – i turni lavorativi sono però una reale necessità nella società moderna, alla quale è davvero difficile sottrarsi totalmente.

Non potendo eliminare alla radice la causa del problema, quindi, è necessario fronteggiare il pericolo con maggiore consapevolezza e con strumenti di compromesso.
Una più razionale e attenta ripartizione dei turni, ma anche regolari e meticolosi controlli medici, possono contribuire ad arginare il rischio di invecchiamento cerebrale precoce e permettere di adottare in tempo le giuste contromisure.

 

Fonte Bibliografica
Chronic effects of shift work on cognition: findings from the VISAT longitudinal study
Jean-Claude Marquié, Philip Tucker, Simon Folkard, Catherine Gentil, David Ansiau

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